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“La donna dei fiori di carta” di Donato Carrisi, seconda parte

“Allora, senza nemmeno guardarsi intorno, gettò via il giglio con un gesto incurante ma plateale, in modo che lo notassero tutti.

Ventiquattr’ore dopo, non trovò il quarto fiore di carta, bensì nuovamente il giglio che aveva gettato via. Era un po’ stropicciato, ma qualcuno l’aveva ripiegato al meglio.

Qualcuno che non voleva essere ignorato.

Jacob non amava i misteri, specie se rischiavano di fargli fare una figura del cretino. Così escogitò un modo per scombinare i piani dell’ignoto fiorista. La sera andò via per ultimo, ma invece di appendere il camice al solito piolo, ne scelse uno fra i tanti che erano ancora liberi – confidando nel fatto che a quel punto – non c’era modo di distinguere il suo dagli altri.

Invece qualcuno riusciva a riconoscerlo, perché il quinto giorno un nuovo fiore attendeva beffardamente di essere scoperto nella sua tasca.

Il rito dei fiori di poesia si ripeté per ventisette mattine di seguito.

. . .

Il ventinovesimo  giorno, Jacob appese il camice e si sistemò su una delle poltrone in pelle  della saletta, con l’idea di passarvi la notte per sorprendere la ragazza dei fiori di carta – così l’aveva ribattezzata. Ma si addormentò troppo presto.

Al mattino fu svegliato da un raggio ambrato che filtrava dalla finestra sui suoi occhi chiusi. Li aprì e vide che in grembo qualcuno gli aveva deposto il solito fiore – un’orchidea. Si stava per maledire per essersi addormentato, quando la vide.

Era in piedi a pochi metri da lui, stretta in un cappotto scuro. Una crestina bianca da  infermiera sui capelli castani, raccolti in una crocchia sulla nuca. Le mani incrociate davanti a sé.

“Poverino”, gli disse. “Non ce l’ha proprio fatta a rimanere sveglio. Ma io so cosa passi qua dentro.”

“Chi sei?” riuscì solo a chiedere Jacob, ancora stordito da ciò che stava accadendo.

“Anch’io mi sono chiesta a lungo chi fosse il giovane dottore che sfioravo tutte le sere, al mio arrivo, e tutte le mattine, quando andavo via. Non te ne sei mai accorto, ma ci passiamo accanto praticamente ogni giorno, sui gradini dell’ospedale, come fosse un appuntamento. Anzi, di più: una coincidenza programmata.”

. . .

“Perché tutto questo?”

“Così ti ho costretto a pensare a me quando ancora non esistevo.”

Jacob considerò che, in effetti, aveva raggiunto lo scopo. “Ho desiderato per molto tempo il tuo nome”, le confessò. “Non il tuo volto o il tuo aspetto, non m’importava. Volevo solo sapere che esistevi veramente. Allora vuoi dirmelo?”

Lei sorrise. “Anya Roumann.”

Il fatto che si fosse attribuita da subito il suo cognome lo colpì. Era come se volesse dirgli: eccomi, sono io la donna della tua vita.

Una settimana dopo la ragazza dei fiori di carta diventò sua moglie.

E adesso l’ho persa, pensò Jacob Roumann, mentre si rigirava fra le dita una sgualcita orchidea di carta. Disteso sulla branda nella fetida trincea, riusciva immaginare il profumo di quel fiore. Era proprio questo il merito di Anya. L’aver instillato nel cuore di un uomo razionale e distaccato il presagio di un mondo parallelo, totalmente diverso, dove i fiori di carta hanno un odore e dove bastano le parole di una poesia per far materializzare le cose. E poi lui non era stato capace d’impedire che un altro uomo gliela portasse via. Era capace solo di subire gli eventi. E Anya se n’era andata via per sempre. “

. . . 

Donato Carrisi, nato nel 1973 a Martina Franca, è l’autore dei romanzi Il suggeritore e Il tribunale delle anime.

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foto: 100layercake.com

“La donna dei fiori di carta” di Donato Carrisi, prima parte

Il libro riunisce un insieme di realtà e fantasia, sentimenti, passione e un confronto  fra un prigioniero italiano durante la prima Guerra Mondiale, che all’alba sarà fucilato, e un medico austriaco che avrà solo una notte per convincerlo a parlare.

Voglio riportare invece una storia d’amore, all’interno di questo romanzo, ricco di altre storie.

“In quel raro e fragile momento di pace, Jacob Roumann si accorse di essere improvvisamente invecchiato. La mezzanotte era trascorsa da un pezzo e se n’era andato un altro compleanno – il più triste della mia vita, considerò.

Si costrinse a ripensare a sua moglie, e a un momento felice di quando erano insieme. Era la sua storia, in fondo. E anche se nessuno l’avrebbe raccontata, era pur sempre una vita. La sua vita.

Gli venne in mente il fiore di carta nascosto fra le pagine consumate della sua agenda. Aveva deciso di conservarlo lì perché era sicuro che solo così, tenendolo costantemente davanti agli occhi, sarebbe riuscito a dimenticarsene. Ma nessuno ha diritto di dimenticare, si disse. Neanche lui ce l’aveva.

Jacob Roumann non aveva mai avuto l’ambizione di dare un nome a una montagna. Ma il suo più grande rimpianto sarebbe rimasto sempre legato a una donna meravigliosa.

Eppure anni prima si era promessa a lui. Ma come gli aveva scritto nella lettera con cui l’aveva lasciato, le promesse a volte fanno pesare il cuore.

Appena laureato in medicina, Jacob aveva preso servizio presso l’Ospedale Generale di Vienna. Un importante luminare l’aveva scelto come assistente ma, per fargli scontare il prezzo del privilegio, non si faceva scrupoli a costringerlo a turni massacranti e a orari assurdi. Jacob non riusciva a staccare prima della mezzanotte e lo attendeva una sveglia puntuale alle cinque.

Ogni volta che arrivava o andava via dall’ospedale, passava dalla saletta riservata ai giovani internisti. Era poco più di uno spogliatoio in cui erano state piazzate un paio di poltrone, rivestite di pelle lisa, e un fornelletto a carbone per fare il tè. C’erano due file di attaccapanni alle pareti, Ognuno aveva il proprio piolo a cui appendere il camice a fine giornata – non perché quel posto gli fosse stato assegnato, ma per spontanea consuetudine.

Una mattina, ancora intontito dal sonno, indossò il camice prima di mettersi al lavoro. Con un gesto meccanico, infilò subito entrambe le mani in tasca. Ma quella volta sentì qualcosa al tatto – sottile e ruvido. Non avrebbe mai dimenticato quella piccola sensazione – come è infinitesimale l’inizio di ogni avventura, avrebbe pensato poi.

Sfilò la mano e si ritrovò a guardare nel suo palmo una stella alpina, realizzata con un foglio che sembrava di giornale.

Stupito ed interdetto, si domandò come fosse finita là dentro. Non riuscendo a rammentare nulla, stava per accartocciare e gettare via lo strano manufatto. Ma si fermò un attimo prima e lo tenne.

Trascorse la giornata senza pensarci. Alla fine del turno, aveva del tutto rimosso il ritrovamento. Come sempre, scambiò il camice con il soprabito e se ne tornò a casa.

Il mattino dopo, ripeté l’operazione ma, un istante prima di mettere le mani in tasca come al solito, senza sapere il perché ripensò a ciò che era accaduto il giorno precedente. Guidate da una specie di sesto senso, le dita scivolarono nello scomparto, e con i polpastrelli avvertì subito qualcosa.

Un secondo fiore di carta. Un tulipano.

Stavolta il ritrovamento lo scosse. Per capirci qualcosa, dispiegò i petali e scoprì che non si trattava di comune carta di giornale. Era la pagina di un libro. Versi in rima, divisi in ottave. Anche se al momento non rammentava l’opera, li aveva già letti, però molti anni prima, al liceo. Erano bellissimi, ma produssero in lui anche uno strano disagio.

E quella sensazione – un misto di turbamento ed eccitazione – tornò ad assalirlo più volta nel corso della giornata, come un solletico al cuore. Finché dalla memoria non giunse almeno una risposta. I versi appartenevano all’Orlando furioso dell’Ariosto, mentre quelli contenuti nel fiore del giorno precedente erano di Shakespeare. Jacob era un uomo pratico, non certo disposto ad assecondare simili frivolezze. Così decise di ignorare la faccenda. La sera riprese il soprabito e, non senza qualche timore, affidò il camice al solito piolo.

Il terzo fiore di carta era al proprio posto l’indomani, ed era un giglio che racchiudeva l’Infinito di Leopardi.

. . . . ” – Continua al prossimo articololibro-dcarrisi