“Allora, senza nemmeno guardarsi intorno, gettò via il giglio con un gesto incurante ma plateale, in modo che lo notassero tutti.
Ventiquattr’ore dopo, non trovò il quarto fiore di carta, bensì nuovamente il giglio che aveva gettato via. Era un po’ stropicciato, ma qualcuno l’aveva ripiegato al meglio.
Qualcuno che non voleva essere ignorato.
Jacob non amava i misteri, specie se rischiavano di fargli fare una figura del cretino. Così escogitò un modo per scombinare i piani dell’ignoto fiorista. La sera andò via per ultimo, ma invece di appendere il camice al solito piolo, ne scelse uno fra i tanti che erano ancora liberi – confidando nel fatto che a quel punto – non c’era modo di distinguere il suo dagli altri.
Invece qualcuno riusciva a riconoscerlo, perché il quinto giorno un nuovo fiore attendeva beffardamente di essere scoperto nella sua tasca.
Il rito dei fiori di poesia si ripeté per ventisette mattine di seguito.
. . .
Il ventinovesimo giorno, Jacob appese il camice e si sistemò su una delle poltrone in pelle della saletta, con l’idea di passarvi la notte per sorprendere la ragazza dei fiori di carta – così l’aveva ribattezzata. Ma si addormentò troppo presto.
Al mattino fu svegliato da un raggio ambrato che filtrava dalla finestra sui suoi occhi chiusi. Li aprì e vide che in grembo qualcuno gli aveva deposto il solito fiore – un’orchidea. Si stava per maledire per essersi addormentato, quando la vide.
Era in piedi a pochi metri da lui, stretta in un cappotto scuro. Una crestina bianca da infermiera sui capelli castani, raccolti in una crocchia sulla nuca. Le mani incrociate davanti a sé.
“Poverino”, gli disse. “Non ce l’ha proprio fatta a rimanere sveglio. Ma io so cosa passi qua dentro.”
“Chi sei?” riuscì solo a chiedere Jacob, ancora stordito da ciò che stava accadendo.
“Anch’io mi sono chiesta a lungo chi fosse il giovane dottore che sfioravo tutte le sere, al mio arrivo, e tutte le mattine, quando andavo via. Non te ne sei mai accorto, ma ci passiamo accanto praticamente ogni giorno, sui gradini dell’ospedale, come fosse un appuntamento. Anzi, di più: una coincidenza programmata.”
. . .
“Perché tutto questo?”
“Così ti ho costretto a pensare a me quando ancora non esistevo.”
Jacob considerò che, in effetti, aveva raggiunto lo scopo. “Ho desiderato per molto tempo il tuo nome”, le confessò. “Non il tuo volto o il tuo aspetto, non m’importava. Volevo solo sapere che esistevi veramente. Allora vuoi dirmelo?”
Lei sorrise. “Anya Roumann.”
Il fatto che si fosse attribuita da subito il suo cognome lo colpì. Era come se volesse dirgli: eccomi, sono io la donna della tua vita.
Una settimana dopo la ragazza dei fiori di carta diventò sua moglie.
E adesso l’ho persa, pensò Jacob Roumann, mentre si rigirava fra le dita una sgualcita orchidea di carta. Disteso sulla branda nella fetida trincea, riusciva immaginare il profumo di quel fiore. Era proprio questo il merito di Anya. L’aver instillato nel cuore di un uomo razionale e distaccato il presagio di un mondo parallelo, totalmente diverso, dove i fiori di carta hanno un odore e dove bastano le parole di una poesia per far materializzare le cose. E poi lui non era stato capace d’impedire che un altro uomo gliela portasse via. Era capace solo di subire gli eventi. E Anya se n’era andata via per sempre. “
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Donato Carrisi, nato nel 1973 a Martina Franca, è l’autore dei romanzi Il suggeritore e Il tribunale delle anime.
foto: 100layercake.com
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